In questa riflessione partiamo da un interrogativo di
fondo, la famiglia del XXI secolo come può rispondere alla sfida educativa
della società contemporanea? Oggi, come non mai, la famiglia è chiamata a un
impegno educativo di elevata qualità, significatività di senso e amorevole
dedizione. Ormai è chiaro a tutti che ci troviamo immersi nella complessità di
una società che stenta a indicare punti fermi, valori, orizzonti di senso e di
speranza. Tutto si consuma nell’attimo effimero di una felicità narcisistica.
Ha preso piede un’etica che si ispira ai paradigmi del “relativismo” e della
“liquidità” (Benedetto XVI; Bauman). L’azione educativa della famiglia si
concretizza nell’ambito delle relazioni fondamentali della quotidianità. È in
questa dimensione che emerge con forza l’importanza della testimonianza. Dunque,
la sfida riguarda, soprattutto, il come educare in una società in continuo
cambiamento dove i paradigmi antropologici sono continuamente cangianti. Ci
sembra importante evidenziare che il primo nodo da sciogliere è quello
antropologico. L’ambito primo con il quale rapportarci è quello di
un’antropologia culturale che ha cambiato i paradigmi di riferimento e, di
conseguenza, anche una certa concezione dell’uomo e delle relazioni sociali. Chi è l’uomo del XXI secolo? Se nel secolo
scorso si parlava di “morte di Dio”, in questo inizio secolo si comincia a
discutere di “morte dell’uomo”. Le due espressioni sono entrambe infelici e
inopportune. In questa prima parte di secolo
si assiste, comunque, a un disorientamento della persona che sembra aver perso
la propria identità. L’uomo del Novecento, annientando Dio dalla propria vita,
pensava di poter diventare onnipotente grazie al progresso scientifico e
tecnologico. L’uomo di oggi non considerandosi più “immagine di Dio” ha perso
la sua identità, è frastornato, annichilito, sta rimanendo schiacciato dal suo
egocentrismo e dalla sua fame di profitto. Egli non è capace di voltarsi
indietro e guardare la scia di aridità che ha lasciato, non è capace di
ritrovare quell’immagine di Dio che ha dentro e che lo renderebbe ancora desideroso
di essere un seminatore di speranza, un essere capace di guardare il futuro con
gli occhi di Dio, una persona con la passione di farsi una famiglia e di fare
famiglia, capace di sentirsi parte della grande famiglia dell’umanità. Il compito che spetta oggi alla famiglia è
quello di generare uomini nuovi per un’umanità nuova. La famiglia supererà
questa sfida se ritornerà a essere la cellula viva della società civile e la
piccola Chiesa domestica, fondata a immagine della famiglia di Nazareth. Ma chi
educherà la famiglia a essere piccola comunità civile ed ecclesiale? Chi
educherà l’uomo a essere Uomo? Il
rischio è quello di entrare in un circolo vizioso che potrebbe generare lo scoraggiamento
e, di conseguenza, l’inerzia dell’azione educativa. Invece, bisogna avere il
coraggio di osare e uscire dalla nicchia del proprio perbenismo e della
mediocrità generalizzata. Avere il coraggio di amplificare le parole del Beato
Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!” Per uscire da una
prassi pastorale e educativa di conservazione e attivare un’azione di nuova
evangelizzazione e educazione centrata sull’amore, l’accoglienza, la solidarietà,
la valorizzazione della Persona umana, attivando un processo sinergico che va
oltre il proprio ruolo, ministero, condizione professionale e sociale. Tenendo
presente che la “Vigna” non ci
appartiene, il nostro compito è solo quello di coltivarla e renderla bella
nell’attesa che il Padrone venga a raccogliere i frutti buoni del suo Amore!
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